Il primo febbraio, una ragazza di 19 anni, ha deciso di togliersi la vita in un bagno della IULM di Milano. Nella lettera ritrovata nella sua borsa chiede scusa alla famiglia per i suoi problemi personali e di studio. Perché una studentessa così giovane ha sentito la necessità di compiere un gesto tanto drastico proprio in un luogo come l’università?

Purtroppo non si tratta di un caso isolato, ma è l’ultimo di una lunga serie di tragici eventi simili. Stiamo assistendo a un crollo psicologico collettivo causato da una crescente pressione performativa scolastica e universitaria. Si elogia chi si laurea con tempi record e alle superiori, nonostante i professori continuino a ribadire che non sia solo il voto a contare per una valutazione, alla fine in pagella non si leggono che numeri. Gli studenti in questi ambienti non vengono più stimolati a essere curiosi di quello che si affronta in classe e lo studio non è più propedeutico alla crescita personale, ma è utile solamente per poterselo lasciare alle spalle al più presto. Inoltre, a causa della pandemia, i casi di ansia e depressione sono aumentati vorticosamente, soprattutto tra i giovani.

Infografica riguardante l’aumento di casi di depressione e ansia a cura di The Lancet

Giulia Calvani, giornalista e studentessa della IULM, è certa che le origini di questo malessere generale non siano imputabili solo alle istituzioni scolastiche:

“Il suicidio avvenuto alla IULM ha portato il focus del dibattito sull’ambiente, spesso oppressivo e angosciante, del sistema universitario. Ma, secondo me, la responsabilità di questa morte non va relegata al solo ateneo. È fondamentale discutere le condizioni di salute mentale dei giovani in ogni ambito di questa società, che cambia velocemente e alza sempre di più i suoi standard”.

È innegabile quanto la società odierna, con l’aiuto indispensabile delle tecnologie, stia anch’essa pressando i giovani ad essere sempre al passo e a sacrificarsi, in situazioni spesso drammatiche, per poter avere successo nella scalata sociale a cui tutti dovremmo presumibilmente ambire. Non c’è tempo per gli errori, bisogna ad ogni costo arrivare alla meta e per chi inciampa è ormai troppo tardi. Una studentessa del nostro Liceo, Emma Agalliu, ha riflettuto sul concetto di fallimento in questo contesto affermando:

“A 19 anni non si deve conoscere la parola “fallimento”. A 19 anni dobbiamo sognare, prendere una strada, pentirci, tornare indietro, cambiare. Sentirci persi, sì, ma con la consapevolezza che con il tempo tutto torna in ordine. […] Anna si è ammazzata perché non si sentiva all’altezza delle aspettative. Il fallimento è nostro. […] Una società che educa i bambini a basare la propria autostima su un numero che viene loro assegnato in base a quante nozioni riescono a farsi entrare in testa. Anna si è ammazzata perché si sentiva in gabbia, incastrata in una giostra che gira veloce e che non aspetta più deboli.”

Dall’altra parte sento di chiedermi se non siamo anche noi studenti ad aver diminuito la nostra capacità di resistere alla pressioni che riceviamo ogni giorno, che siano scolastiche e sociali. È inutile puntare tutte le colpe contro il singolo: questo tipo di problematiche hanno delle dinamiche in cui siamo tutti coinvolti. È bene ricordarsi che è normale avere dei momenti di sconforto, ma non bisogna nascondersi dietro di essi. È normale sbagliare, ma bisogna imparare a imparare dai nostri errori. È normale essere travolti dallo stress, ma bisogna reagire e imparare a gestirlo.

Se la scuola e l’università diventassero, come è il loro principio e dovere, un punto di riferimento per i giovani in cui crescere e sbagliare e non un punto d’arrivo in cui è necessario essere già maturi e infallibili, terribili episodi come questo potrebbero evitarsi.

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